di Maura Gancitano
C’è chi dice che la narrativa italiana non offra più niente di interessante. Io penso, piuttosto, che i bei libri siano semplicemente difficili da trovare, che il lettore debba spesso andarli a cercare nei cataloghi delle piccole case editrici.
È il caso, per esempio, de “Il pasto grigio”, il libro di Demetrio Paolin pubblicato da Untitl.ed, giovanissima casa editrice che ha scelto di pubblicare esclusivamente libri scritti da blogger.
Il romanzo si apre con un incidente: un anziano signore viene travolto da un tram. Il protagonista, che in quel momento si trova sul mezzo, non ha il minimo turbamento nel vedere quella scena, ma ha solo fretta di tornare a casa per dare acqua alle begonie, sofferenti per via della torrida estate torinese. Così entriamo a casa di Matteo, il quale da subito ci pare nasconda qualcosa, lo ascoltiamo parlare di calcio con la vicina di casa, Elvira, e poi lo vediamo uscire con Lisa, conosciuta per via di faccende condominiali.
Noi lettori, però, così come le due donne, non sappiamo che lavoro faccia Matteo. Leggendo il libro lo si intuisce, non è difficile immaginarlo, eppure non ci viene svelato che alla fine, ed è questo che dà senso all’intero romanzo, che ci spinge ad andare avanti.
Questo libro è costruito con grande razionalità. Demetrio Paolin ha cercato di creare un ingranaggio preciso tentando di farlo apparire naturale, dando al lettore la voglia di andare avanti nella lettura senza accorgersene. Il linguaggio è ricercato, di certo non è quello usato comunemente oggi, e soprattutto all’inizio c’è un’abbondanza di aggettivi e avverbi che possono rendere il ritmo della lettura molto lento. Dopotutto è quello che Paolin vuole, nel tentativo soprattutto di far sentire anche al lettore la pesantezza della città, il caldo estivo, e l’atmosfera grigia – è il caso di dirlo – dell’intera narrazione.
Eppure il lettore arriva presto a leggere le ultime pagine del libro. Qui Matteo mantiene la promessa fatta ad Elvira, costretta in un letto d’ospedale: la uccide. Toglierle il respiratore è forse il suo unico vero atto di scelta. Matteo è un killer di professione che ha ereditato la sua arte dal nonno, fa il suo lavoro senza chiedersene il motivo, agisce senza domandarsi se ciò che fa sia giusto o sbagliato. Eppure adesso riesce a compiere un evento morale, sceglie di dare la morte, accetta la propria responsabilità, e in questo modo scopre la propria identità personale, che aveva cercato di ignorare quando aveva saldato un debito di Elvira, preferendo rimanere un anonimo benefattore.
La conclusione è forse un po’ troppo frettolosa, forse sarebbe stato meglio porre maggiormente l’accento su questo aspetto, permettendo al lettore di capirlo di più e dandogli maggiore tensione. Nell’insieme, comunque, il romanzo è molto bello, costruito con abilità, e indubbiamente da leggere.